lunedì 28 maggio 2018

Rumori di schianto nella Costituzione

L'evoluzione della crisi delle istituzioni italiane è giunta a un punto di non ritorno. Dopo la decisione di Mattarella di ieri (di cui pure  condivido le ragioni), il parlamentarismo italiano ha superato il punto di rottura. Senza dubbio i costituzionalisti discuteranno a lungo delle implicazioni del veto presidenziale a una linea di politica economica, incarnata nella figura di un ministro per il quale i partiti di maggioranza non hanno voluto proporre alternative.
In questo articolo (scritto in fretta e furia poco prima di prendere l'aereo, perdonatemi!) faccio un riassunto delle ragioni che ci hanno condotto in questa situazione che ha molte, moltissime ombre.

1) A chi spetta decidere chi sarà ministro?
Secondo la Costituzione, i ministri sono nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri. Pertanto, la decisione spetta congiuntamente a entrambi, mediante i due atti distinti di proposta e nomina.

2) Il Presidente del Consiglio può proporre chi vuole?
Sì. E' essenziale per il ruolo di capo del governo potere scegliere i propri collaboratori.

3) Il Presidente della Repubblica può rifiutare la nomina?
Sì. E' successo diverse volte anche in passato.

4) Cosa prevede la Costituzione nel caso in cui Quirinale e capo del governo non giungano a un accordo?
Niente. Ma prima d'ora non era mai successo.

5) Per quale ragione questa volta il contrasto è insanabile?
Quando in passato il Quirinale si è opposto a una certa nomina, il presidente del consiglio incaricato ha fatto una proposta alternativa che è stata accettata. In questo caso, Conte non ha fatto alcuna proposta alternativa alla nomina di Savona, pare su indicazione di Salvini.

6) Per quale ragione Salvini si è irrigidito sul nome di Savona?
La ragione per cui Salvini non fosse disponibile a nomi alternativi per il ministero dell'economia non è nota.

7) Per quale ragione Mattarella non ha accettato Savona?
Il Presidente della Repubblica ha rilasciato questa dichiarazione:
"La designazione del ministro dell'economia costituisce sempre un messaggio immediato di fiducia o di allarme per gli operatori economici e finanziari. Ho chiesto per quel ministero l'indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza, coerente con l'accordo di programma; un esponente che, al di là della stima e della considerazione per la persona, non sia visto come sostenitore di una linea più volte manifestata che potrebbe provocare probabilmente, o addirittura inevitabilmente, la fuoriuscita dell'Italia dall'euro."
Sulla base di questa dichiarazione, possiamo dire che non sarebbe stato sufficiente, per Conte, proporre un ministro alternativo, ma ne avrebbe dovuto proporre uno con un profilo politico completamente diverso.

8) La Costituzione impedisce la nomina di un ministro favorevole all'uscita dell'Italia dall'euro?
No, su questo punto la Costituzione tace.

9) Da quando il Presidente della Repubblica può agire per ragioni diverse da quelle di legittimità costituzionale?
In teoria non può. Anche se di presidenti che hanno interpretato il proprio ruolo in modo estensivo ce ne sono stati tanti, questa è la prima volta che un Presidente della Repubblica si oppone a una linea politica.

10) Ho sentito dire che, siccome la nomina dei ministri spetta al Quirinale, Mattarella ha semplicemente esercitato i propri poteri.
Questa lettura giustificazionista della decisione di Mattarella è estremamente pericolosa. Un domani potremmo trovarci con un Presidente della Repubblica che si oppone al programma della maggioranza parlamentare o che scioglie un Parlamento perfettamente funzionante soltanto perché quel giorno gli gira così.
Secondo la Costituzione, il Presidente del Consiglio è titolare della funzione di indirizzo politico e quindi il Presidente della Repubblica non può utilizzare i propri poteri per ostacolarla. I sistemi in cui il Presidente della Repubblica esercita anche funzioni politiche si chiamano repubbliche (semi-)presidenziali, mentre l'Italia è una repubblica parlamentare.

11) Quindi Mattarella ha sbagliato?
Ni. Mattarella, essendo convinto che la nomina di Savona ci avrebbe portati fuori dall'euro mettendo a rischio l'integrità dello stato, ha ritenuto che fosse suo dovere opporsi. Nel farlo, però, ha dilatato i poteri presidenziali a dismisura, utilizzandoli contro la maggioranza parlamentare.
Il problema è che, al momento, l'unico che ha titolo per stabilire se la situazione è tanto grave da richiedere l'utilizzo dei poteri di riserva del Presidente della Repubblica è il Presidente stesso. Dobbiamo quindi sperare che non ci capitino mai cattivi presidenti.

12) Ci sono gli estremi per l'incriminazione del Presidente della Repubblica?
Il Presidente della Repubblica può essere incriminato soltanto per alto tradimento o per attentato alla Costituzione.
La prima fattispecie si ha quando il presidente compia atti volti a porre lo stato italiano sotto un potere straniero. Qualcuno ha suggerito che Mattarella faccia gli interessi europei e non quelli italiani, ragion per cui sarebbe colpevole di alto tradimento, ma si tratta di un'accusa ridicola.
L'attentato alla Costituzione corrisponde ad atti che producono un mutamento dell'assetto istituzionale secondo un metodo diverso da quello consentito dalla Costituzione stessa. La tesi che Mattarella abbia sottratto alla maggioranza parlamentare una funzione che le è attribuita dalla Costituzione, è giuridicamente difendibile.

13) Quindi il Presidente della Repubblica potrebbe essere condannato per attentato alla Costituzione?
Se anche fosse incriminato, il collegio giudicante dovrebbe riconoscere che ha agito sulla spinta della necessità, dato che le conseguenze della nomina di Savona avrebbero davvero potuto essere disastrose.

14) Possiamo allora dire che va bene così: Mattarella ha ragione, Salvini e Di Maio hanno torto.
Non ho mai avuto dubbi che Salvini e Di Maio avessero torto, però non è piacevole che il funzionamento delle istituzioni si regga sull'uso fantasioso di poteri che il Presidente di una repubblica parlamentare non dovrebbe neanche avere.
In secondo luogo, stiamo facendo un clamoroso passo indietro nella maturità democratica delle nostre istituzioni: dopo tanti anni, continuiamo a reggerci sul fatto che, se gli elettori votano "male", ci sarà qualche potere non eletto che aggiusta le cose. Il rischio è quello di aggravare il distacco tra l'elettorato e poteri politici percepiti come autoreferenziali e bollati come casta.
E poi, cosa facciamo se le prossime elezioni fanno rivincere Di Maio e Salvini?

martedì 20 febbraio 2018

Il voto non è un sacrificio rituale

Negli anni '70 e '80, gli anni della spesa sregolata, hanno origine la maggior parte delle nostre disgrazie attuali; negli anni '90 ci si è messa una pezza, ammazzando però la competitività delle nostre imprese e condannando un'intera generazione al precariato; e le conseguenze degli anni 2000, che ci hanno regalato esperienze oggettivamente cattive come quelle del secondo Prodi (che si resse per due anni su un solo voto di maggioranza, riuscendo dunque a combinare ben poco) e di tre governi Berlusconi (conclusisi a un passo dal baratro nel 2011) le ricordiamo tutti.

Per dirla in breve, in Italia, di cattivi governi ne abbiamo avuti tanti. Per quanto si fosse governato male, però, non c'è mai stata una dissoluzione totale del sostegno al governo uscente.

La XVII legislatura, quella che si è appena conclusa, è arrivata al termine del quarantennio micidiale descritto poc'anzi. Pur dopo un inizio rocambolesco, si è poi consolidata sotto la guida del Pd, che ne riassume il bilancio in questo spot elettorale:


Propaganda, certo, ma nel senso buono del termine. Chi volesse fare un confronto serio con il quarantennio precedente, non potrebbe negare, a meno di arrampicarsi sui vetri, che stavolta si è fatto meglio. Paradossalmente, però, l'accanimento nei confronti del Pd che ha retto le sorti di questa positiva legislatura è qualcosa di mai sperimentato. E non manca chi rovescia la logica: se il Pd è così criticato e perderà le elezioni, vuol dire che ha governato male, e per rivotarlo bisogna "turarsi il naso".

Non fatevi fregare: il voto, il giudizio su una legislatura, di rado è razionale e molto più spesso è umorale. Decisamente umorale e irrazionale è l'analisi di Luca Sofri che, alla ricerca di una ragione per non votare Pd, la trova così:

C’è infatti un’altra possibile motivazione nella scelta di voto di cui penso valga la pena tenere conto, e che ha maggiore nobiltà e lungimiranza di quelle descritte: e ne ha almeno quanto quella principale di dare al paese un miglior parlamento e un miglior governo, domani. Ed è quella di darglielo dopodomani.

L'affermazione sopra riportata è espressa con banalità e noncuranza, per farla apparire ovvia, ma in realtà è un nonsenso. Non c'è infatti ragione di credere che, rifiutando di dare al paese un miglior parlamento domani, riusciremo a dargliene uno ancora migliore dopodomani. Forse Sofri si ispira ai sacrifici rituali degli antichi, che credevano che l'agonia della vittima placasse il dio ostile e lo rendesse magnanimo. Pensiero magico, insomma, non razionalità.


Continua Sofri:

sono decenni che scelte che non sono solo opinabili, ma del tutto assurde e prive di valore e logica, vengono compiute e affibbiate agli elettori per poi chiedere loro di avallarle “perché se no vincono gli altri”.

L'oggetto di tanta rabbia sono le liste elettorali. Ci sono buone ragioni per ritenere che alcuni candidati del Pd non siano validi, così come altri sono invece molto validi, ma se sono decenni che le liste sono imperfette, perché dovremmo riservare un trattamento peggiore che in passato proprio all'esperienza politica migliore dei tempi recenti? Il 4 marzo non si fanno i conti con decenni di cattive liste elettorali: si dà invece il giudizio su una legislatura che ha realizzato tanto, ed è venuta dopo decenni di vacche magre.

C'è chi dice che se puniamo chi ha reso possibile questa legislatura, ne avremo una ancora migliore. Invece, tutto lascia pensare che ne avremo una molto peggiore. Caro Luca, se rinunciamo a dare al paese il miglior parlamento possibile, quando si rivoterà saremo molto più disperati, e quindi molto più disponibili a "turarci il naso" anche di fronte ad un'offerta politica peggiore di quella attuale. Contrariamente a quello che dici, non è antidemocratico richiamare gli elettori alle proprie responsabilità: democrazia significa potere del popolo, e il potere è responsabilità.

mercoledì 25 ottobre 2017

Italicum: tirando le somme

Quarta e ultima puntata della nostra discussione sulla sentenza di incostituzionalità Italicum. Link diretti alle puntate precedenti
1. Sintesi della sentenza
2. Analisi generale
3. Ballottaggio nell'Italicum e nei comuni


Nel precedente articolo sulla sentenza Italicum, abbiamo cercato di approfondire l'assunto impossibile della Corte Costituzionale: eliminare il ballottaggio dell'italicum in quanto incostituzionale, mantenendo valido quello dei sindaci in quanto costituzionalmente legittimo. Ripugna alla logica che quella disproporzionalità che nell'Italicum, assegnando il controllo di un organo alla maggior minoranza, viene giudicata illegittima, venga invece giustificata quando gli organi assegnati alla maggior minoranza sono ben due: sindaco e consiglio comunale.
La Corte Costituzionale ha in passato confermato la legittimità della legge elettorale comunale, ma la prossima volta che il sindaco di una grande città sarà eletto avendo totalizzato, al primo turno, soltanto il 20% dei consensi, gli esclusi dal ballottaggio potranno fare ricorso basandosi sulla nuova giurisprudenza relativa all'Italicum. I giudici dovranno allora prodursi in nuove acrobazie per evitare di scassare ciò che funziona da 25 anni.

La "logica prevalente" proporzionale

Concludiamo la nostra critica puntualizzando alcuni ulteriori elementi discutibili. Uno di questi è la "logica prevalente" della legge elettorale: già nella sentenza 1/2014 (contro il Porcellum), la Corte aveva sostenuto che

qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita” [...]

Si tratta a ben vedere di un'affermazione che sconfina quasi nella sprezzante sottovalutazione dell'elettore, capace di vedere soltanto proporzionale o maggioritario, e non le diverse gradazioni di questi due principî che sono possibili. Chiunque sia in grado di capire che il caffelatte può avere più o meno caffè per aiutare a svegliarsi, e più o meno latte per attenuare l'amaro del caffè, sa anche cosa aspettarsi da una legge che contenga elementi di proporzionale ed elementi di maggioritario.

Al tempo stesso, la Corte si attribuisce una sostanziale arbitrarietà nel definire quale sia la logica prevalente: chi può dire che la ripartizione proporzionale del 45% dei seggi costituisca un elemento prevalente sulla formula majority assuring. Chi può dire, parafrasando la Corte, che il ballottaggio non generi nell'elettore la "legittima aspettativa" che il vincitore ottenga una maggioranza dei seggi?

È dunque evidente che questo ragionamento dei giudici, ancorché non illogico, contiene elementi fortemente opinabili.

Rappresentatività e governabilità

Lascia invece senza parole che la Corte insista con l'annoso dualismo tra rappresentatività e governabilità: una dicotomia accademica che vive ormai di vita propria, avendo interrotto ogni rapporto con il sentire comune. Sarebbe utile, per i giudici, fare una passeggiata fuori dal Palazzo della Consulta, e incontrare al parco oppure al bar qualche elettore di quelli che si lamentano del quarto governo non eletto consecutivo, imbeccati da giornalisti televisivi esperti nel frullare gli umori popolari. E dovrebbero fare, a quegli elettori, una domanda semplice: quanto è rappresentativo un sistema elettorale che, nella quasi totalità dei casi, affida il governo a una contrattazione tra partiti, invece che alla scelta dei cittadini?

"Poco o niente", sarebbe la risposta. E forse, allora, i giudici ci penserebbero due volte prima di argomentare che la governabilità è subordinata alla rappresentatività: nel sentire comune, la governabilità è invece un elemento di rappresentatività.


La forma di governo

Un ultimo elemento di critica è collegato ancora una volta alla goffa difesa del premio di maggioranza comunale, basata sulla diversa forma di governo. I progetti di riforma della bicamerale D'Alema e del governo Berlusconi sono stati segnati da una forte opposizione dovuta al fatto che quelle proposte intaccavano la forma parlamentare, modificandola in qualcos'altro (semipresidenzialismo oppure premierato forte): i maggiori oppositori di quei progetti (in molti casi gli stessi che si opposero alla riforma costituzionale fallita del 2016) sostenevano che il problema della governabilità andasse affrontato soltanto dal punto di vista della normativa elettorale, e non da quello della forma di governo.

Addirittura si disse (l'infelice iperbole si deve, purtroppo, al compianto Leopoldo Elia) che il progetto del governo Berlusconi configurava un "premierato assoluto". Se prendiamo seriamente il ragionamento della Consulta (io, come ho già detto, ritengo che ciò non sia possibile; ma altri potrebbero pensarla diversamente), abbiamo un forte argomento in favore della modifica della forma di governo in modo coerente con la proposta del cosiddetto "premierato assoluto".

È dunque inevitabile che i prossimi progetti di riforma -- ce ne saranno ancora altri, senza dubbio -- saranno più ambiziosi di quello minimale che è stato bocciato lo scorso anno. I gladiatori del No sono avvisati...


Non è tutta colpa della Corte Costituzionale

Benché la sentenza sull'Italicum sia problematica per le ragioni fin qui esposte, non tutto quello che ne è conseguito è responsabilità dei giudici.

Non è vero, per esempio, che la Consulta abbia chiuso la porta a ogni legge elettorale majority assuring. Il ballottaggio dell'Italicum avrebbe tranquillamente potuto essere salvato, con tanto di premio di maggioranza al 54%, se il parlamento si fosse messo d'accordo per rendere possibili gli apparentamenti tra liste, in qualche forma che tenga conto dei rilievi della Corte, al secondo turno. Sarebbe stata una strada stretta, ma la maggioranza che ha approvato l'Italicum, in teoria, avrebbe dovuto essere in grado di fare questa modifica.

Invece ciò non è stato possibile per due ragioni: la prima è che la bocciatura della riforma del bicameralismo al referendum dello scorso dicembre, confermando il Senato elettivo e paritario, esclude l'utilizzo di premi di maggioranza con ballottaggio. Il rischio che i due ballottaggi simultanei per Camera e Senato diano risultati diversi (dato che diverso è il corpo elettorale: al Senato i minori di 25 anni non votano) sarebbe troppo elevato.

Inoltre il risultato del referendum ha reso francamente improponibile la riproposizione di un sistema elettorale pensato insieme a quella riforma costituzionale bocciata dagli italiani.

Infine, una legge elettorale giudicata incostituzionale diventa marchiata per sempre come "porcata", ma questo dipende da un pensiero demagogico che non è stato promosso dalla Corte Costituzionale. Troppo difficile spiegare che un sistema elettorale è un oggetto complesso in cui occorre contemperare numerose esigenze di rilievo costituzionale, e che il campo di azione della Consulta si è esteso (oltretutto con una giurisprudenza ondivaga) a tal punto che l'unico modo per essere certi della costituzionalità di un sistema è approvarlo e incrociare le dita in attesa di un ricorso che non tarderà ad arrivare.

Concludo così questa serie sull'Italicum, proprio mentre si approva una nuova legge elettorale, molto meno ispirata di quella precedente, ma che probabilmente reggerà allo scrutinio di costituzionalità proprio perché le mancano quei correttivi maggioritari che una buona legge elettorale italiana dovrebbe avere. Dovremo sperimentare i limiti di questo sistema che gli italiani hanno voluto senza volerlo, per capire quanto fosse buono quello giudicato incostituzionale. Addio Italicum, legge che avrebbe potuto essere buona, ma alla fine non fu!

< 3. Il premio nell'Italicum e nei comuni < (fine)

domenica 1 ottobre 2017

Due parole sulla Catalogna

In una democrazia liberale dovrebbe essere possibile, seguendo la giusta procedura, aggravata fin quanto è necessario, discutere e prendere qualunque tipo di decisione che non metta in pericolo la democrazia liberale stessa.
Invece, oggi, le questioni che riguardano l'unità dello stato e la variazione dei confini, nella maggior parte dei paesi (la Spagna, come abbiamo scoperto, ma notoriamente anche l'Italia) non possono neanche legittimamente essere poste.
Non si possono variare i confini (se non in maniera del tutto eccezionale) perché la pace di cui ha goduto la maggior parte dell'Europa dalla fine della seconda guerra mondiale deriva in buona parte dal fatto che i confini degli stati sono diventati cristallizzati e indiscutibili.
Si tratta senz'altro di un'ottima ragione, ma non abbastanza da autorizzare un governo che si trovi a confrontarsi con una regione fortemente autonomista prima, e separatista poi, a ignorare il problema, mostrarsi completamente sordo alle richieste della popolazione, e alla fine raddrizzarli a bastonate.
Non è una buona ragione perché si tratta di un comportamento moralmente incompatibile con quei principi della democrazia liberale che dovremmo considerare supremi, forse anche più della costituzione stessa. Ma soprattutto non è una buona ragione perché è straordinariamente inefficace.
Pensateci bene: questo scontro tra Madrid e Barcellona è nato attorno a una questione di tasse: roba che con l'identità nazionale non c'entra nulla. 10 anni fa, sotto Zapatero, c'era un 15% di separatisti in Catalogna: robetta. Poi è arrivato Rajoy, che ha ignorato per anni il malumore catalano (non ve la faccio lunga, ma c'è di mezzo una sentenza di incostituzionalità) e alla fine gli ha mandato la guardia civile (carabinieri) a bastonarli.
Ecco, pensate a questo e ditemi: secondo voi i catalani, dopo le bastonate, si sentono più spagnoli o meno?

giovedì 29 giugno 2017

Sentenza Italicum: l'eccezione dei comuni

Terza puntata della nostra discussione sulla sentenza di incostituzionalità Italicum. Link diretti alle puntate precedenti
1. Sintesi della sentenza
2. Analisi generale


La decisione della Consulta sull'incostituzionalità del ballottaggio previsto dall'Italicum non si applica alla legge elettorale dei comuni. La Corte spiega questa disparità di trattamento come segue:

"È pur vero che nel sistema elettorale comunale l'elezione di una carica monocratica, qual è il sindaco, alla quale il ballottaggio è primariamente funzionale, influisce in parte anche sulla composizione dell'organo rappresentativo. Ma ciò che più conta è che quel sistema si colloca all'interno di un assetto istituzionale caratterizzato dall'elezione diretta del titolare del potere esecutivo locale, quindi ben diverso dalla forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione a livello nazionale."

Qual è la forma di governo dei comuni?

Le forme di governo universalmente riconosciute come tali sono soltanto due: quella parlamentare, in cui esecutivo e legislativo sono legati dal circuito fiduciario, e quella presidenziale, in cui il circuito fiduciario è del tutto assente. Gli Stati Uniti sono una repubblica presidenziale, e per questo motivo Obama ha governato per diversi anni nonostante il Congresso avesse una maggioranza repubblicana. La forma di governo parlamentare è propria di molti paesi europei, come l'Italia o la Germania, in cui il parlamento può licenziare il governo in qualunque momento.

Più incerta è la classificazione dei paesi come la Francia, in cui il governo è legato al parlamento da un vincolo di fiducia (o, almeno, di non sfiducia), pur essendo diretto da un presidente che non può essere sfiduciato. Vista la presenza del circuito fiduciario, è stata spesso definita "forma di governo parlamentare a tendenza presidenziale"; oggi però, si parla comunemente di sistema semi-presidenziale.

E i comuni? Il parlamentino dei comuni, il consiglio comunale, può sempre sfiduciare e licenziare sia l'esecutivo sia il suo capo (la giunta comunale e il sindaco), per cui la forma di governo è parlamentare. Una caratteristica dei comuni, però, è quella di prevedere che qualora il sindaco decada, debba essere rieletto anche il consiglio. Una parte della dottrina -- quasi esclusivamente italiana, peraltro -- ritiene che questo principio (detto simul stabunt, simul cadent) determini una forma di governo diversa, variamente denominata (semi-parlamentare, primo-ministeriale, o anche premierato forte). Evidentemente, la Corte Costituzionale italiana ha fatto propria questa classificazione che, però, non è affatto unanime.

(Nota: nella sentenza si legge che la forma di governo dei comuni non è parlamentare perché il sindaco è eletto direttamente. È uno strafalcione: la forma di governo riguarda principalmente i rapporti fra i diversi poteri dello stato, e non il modo in cui sono eletti. Secondo la Costituzione degli USA, il Presidente non è eletto direttamente dai cittadini, ma dal Collegio Elettorale o, addirittura, in alcuni rarissimi casi, dalla Camera dei Rappresentanti; ma nessuno dubita che gli USA siano una repubblica presidenziale. Viceversa, il presidente dell'Irlanda è eletto direttamente dai cittadini, pur in una repubblica parlamentare).

La differenza tra stato e comuni

La differenza tra stato e comuni è dunque la seguente: in entrambi i casi, l'organo assembleare può licenziare l'esecutivo, ma quando ciò accade le conseguenze sono ben diverse. Nel caso dei comuni, la sfiducia non comporta solo le dimissioni del sindaco, ma anche lo scioglimento del consiglio comunale; a livello nazionale, invece, il Parlamento che ha sfiduciato il governo di norma rimane in carica, può dare la fiducia a un altro governo, e viene sciolto soltanto se ogni tentativo dovesse fallire.

In parole ancora più semplici, il sindaco e il consiglio comunale hanno un rapporto paritario e formano un tutt'uno indissolubile: o vivono insieme, o muoiono insieme; il governo nazionale, invece, si confronta con il parlamento in posizione del tutto subordinata.

Sentenza Italicum e comuni

Secondo la Corte Costituzionale, il ballottaggio dell'Italicum consegna il controllo di un organo assembleare a una forza politica potenzialmente poco rappresentativa, con una disproporzionalità talmente grande da essere contraria alla Costituzione.

Ma allora secondo quale logica il ballottaggio dei comuni può essere considerato conforme alla Costituzione? Non si può certo sostenere insieme  che dare a una forza politica la maggioranza di un solo organo sia incostituzionale, mentre è perfettamente legittimo consegnare alla stessa forza politica, con un solo voto, il controllo di ben due istituzioni, tra l'altro con una disproporzionalità anche maggiore di quella dell'Italicum (il premio di maggioranza dei consigli comunali è pari al 60%)

Ben lungi dal giustificare la disproporzionalità, la diversa forma di governo dei comuni ne rende gli effetti ancora più gravi.

Come interpretare, allora, il ragionamento della Corte?

La prima possibilità è accettare che la Corte, nelle proprie sentenze, è dispensata dal mantenere una qualunque coerenza logica interna. Il ballottaggio dell'Italicum è incostituzionale, mentre quello dei comuni è costituzionale, perché così è stato deciso, e non è necessario argomentare ulteriormente. Le motivazioni della sentenza sono soltanto un accessorio.

Oppure, le conclusioni che la Corte ha tratto per l'Italicum sono valide anche per i comuni, e il passaggio della sentenza che evidenzia la differenza tra le due forme di governo significa soltanto che per la legge elettorale dei comuni non ci sono conseguenze immediate; nulla impedisce però di ricorrere in giudizio contro la legge elettorale dei comuni, utilizzando i nuovi principi delineati dalla sentenza Italicum. E dunque anche in quel caso dovrà essere pronunciata una sentenza di incostituzionalità, perché l'elezione simultanea e collegata del consiglio comunale e del sindaco rafforza le criticità del premio di maggioranza e del ballottaggio.

In entrambi i casi, pare che i giudici non abbiano ben considerato, o che abbiano sottovalutato le conseguenze delle proprie azioni. Del resto sono esseri umani anche loro: purtroppo, nel nostro ordinamento, gli errori della Corte Costituzionale sono molto difficili da correggere.

< 2. Analisi della sentenza < > 4. Tirando le somme >